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Incontro con:
ASCANIO CELESTINI
di Marcello Manuali
Perugia, Teatro Morlacchi, 20 ottobre 2005
- La pecora nera è uno spettacolo
fatto di storie. Il tuo teatro è un teatro di storie. Le storie sono
tutte uguali oppure queste storie de La pecora nera, per chi poi le
racconta, non sono come le altre?
- Per me in realtà sono molto diverse, per un motivo, non soltanto per
il fatto che queste storie qua sono legate all'istituzione manicomiale,
psichiatrica. Dico non solo per quello perché in realtà all'inizio
quando ho iniziato a raccogliere le storie sul manicomio pensavo di
fare un lavoro molto simile a quello che avevo fatto fino ad allora,
fino a tre anni fa, quindi legato alla seconda guerra mondiale, a
quello che è stato il fascismo, il nazismo, al lavoro in fabbrica,
pensavo di fare un lavoro molto simile. Raccontare una grande
istituzione, totalizzante, criminale quanto vuoi, però raccontarla
attraverso il cambiamento dell'identità delle persone che ci hanno
vissuto dentro: la persona cambia perché l'istituzione è talmente forte
che la cambia totalmente. Questo io volevo raccontare. In realtà poi, a
un certo punto, strada facendo, un po' perché sono cambiato io, a
prescindere dal lavoro che avevo fatto, un po' perché questo lavoro mi
ha fatto ragionare su alcune cose, ho iniziato a pensare che forse non
aveva senso parlare del passato, di quella che era stata la
trasformazione del manicomio tra gli anni cinquanta e gli anni
settanta, che all'inizio era quello di cui volevo parlare, ma che era
molto più interessante per me parlare del presente. Tant'è vero che la
prima frase dello spettacolo, che è pure stampata sulla scenografia, è
«io sono morto quest'anno», e infatti io parlo del 2005, il mio
personaggio muore nel 2005; racconta anche della sua infanzia, ma
racconta soprattutto di quello che accade quest'anno, e di come è
quest'anno, per lui, l'istituzione psichiatrica. Per cui per me questo
è uno spettacolo molto diverso dagli altri, proprio perché parlo del
presente, di qualcosa che accade oggi, o comunque la mia storia accade
nell'oggi.
- In questo lavoro di raccolta di
materiale, di interviste, che è durato parecchio, tu fai da filtro fra
noi e i protagonisti dello spettacolo. Il tuo modo di fare teatro è
sorprendente proprio perché è così semplice. Quanto sei rimasto
coinvolto, quanto ti è rimasto di questo lavoro che hai poi portato in
scena?
- Per me molto, per tanti motivi, un po' perché, quando io racconto una
storia, cerco di raccontarla io, non penso al personaggio; anche lì
dove c'è un personaggio che parla in prima persona, come in questo
caso, penso sempre che poi chi racconta la storia sono io; non ho un
testo a memoria che imparo a memoria, cercando di entrare nel
personaggio; non imito la voce di un personaggio; non cerco di far
pensare allo spettatore che la persona che ha davanti, cioè quello che
sta sul palcoscenico, l'attore, che sarei io, è il personaggio. Cerco e
spero che lo spettatore veda i personaggi, veda i luoghi di cui si
parla nella storia, ma li veda perché li costruisce nel suo
immaginario. Per cui è chiaro che io sto in scena al 100% come Ascanio
Celestini, e questa storia modifica me, ma modifica me come modifica
l'identità di una persona un viaggio che questa persona fa: se io
faccio un viaggio, non è che poi, quando torno da questo viaggio,
imparo a memoria un testo e racconto a memoria quello che ho visto; io
ho acquisito un'esperienza e parlo attraverso la mia esperienza. Non è
che l'idraulico fa l'idraulico, imita l'idraulico, entra nel
personaggio dell'idraulico: l'idraulico è un idraulico e ripara il tubo
bucato. Questo è un po' quello che cerco di fare io. Per cui è chiaro
che ogni lavoro che faccio mi cambia in maniera importante. E' per
questo che io non faccio neanche un giorno di prova per il mio
spettacolo, però ci lavoro per due, tre anni, e cerco di arrivare allo
spettacolo come alla fine di un viaggio.
- Nel programma di sala c'è un
riferimento ai geografi del passato, ai cartografi che andavano a
raccogliere le informazioni e poi costruivano, appunto, le mappe; e c'è
anche un riferimento al teatro civile, una frase che non sentivo da un
po' di tempo e che mi è piaciuta molto...
- Io penso che tutto il teatro sia civile, e ti dirò anche di più:
penso che tutto il teatro sia politico. Nel senso che il teatro è un
atto pubblico, qui ci stanno 700-800 spettatori, io faccio spettacolo
per sei giorni, e questo significa che vengono qui 3500-4500 persone.
Questo è fare politica. Certo, io non faccio politica per un partito;
non è che poi, alla fine dello spettacolo, dico: «La pecora nera è
gentilmente offerto da Berlusconi o da Bertinotti». Non mi interessa,
non è questo quello che faccio io. fare politica significa (da polis)
stare nella città, essere un cittadino che si occupa della città, delle
cose che riguardano anche gli altri. Tutto il teatro è civile, tutto il
teatro è politico, anzi, tutto il teatro è politica. Bisogna che
l'artista, proprio come artigiano del teatro, si prenda carico di
questa responsabilità che ha. Per tornare all'esempio dell'idraulico,
non è che dice «sì, io riparo i tubi da un pollice, non quelli da mezzo
pollice, perché io sono un pollicista e non un mezzo pollicista».
L'idraulico mi ripara i tubi se sono bucati, mi rimette a posto il
lavandino, mi monta il bidet, è il suo mestiere. Per cui il mio
mestiere non è solamente far ridere la gente o farla piangere,
informarla su una cosa o non informarla: il mio lavoro è quello di
portare in scena delle storie, costruirle attraverso una pratica antica
che è quella della drammaturgia, quindi della costruzione delle storie
per il dramma scenico. Questo è il mio lavoro ed è assolutamente un
lavoro politico, civile: quando un attore mi dice «ah no, io non faccio
politica, il mio non è un teatro civile, io lo faccio solo per
divertire la gente», costui fa ugualmente politica, come me, solo che
la maschera da barzelletta. Solo che, se io racconto una barzelletta a
te, all'amico mio, a uno al bar io racconto una barzelletta; ma se io
racconto la stessa barzelletta su un palcoscenico io non sto più a
raccontare una barzelletta; e questo lo sa bene Berlusconi, che quando
racconta barzellette non è un comico, ma continua a essere un politico.
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